Se per “aggressione” intendiamo tutte le azioni che causano, o hanno lo scopo di causare un danno ad un’altra persona, un animale o un oggetto, la distinzione basilare tra tutti gli impulsi collocati in questa categoria è tra aggressione biologicamente adattiva, al servizio della vita e aggressione maladattiva o non-adattiva, al servizio della distruttività e della crudeltà. L’aggressione adattiva è la reazione contro la minaccia a interessi vitali, è filogeneticamente comune ad uomini ed animali, non è spontanea ma è reattiva e difensiva, ha lo scopo di annullare una minaccia, o soddisfare un bisogno fisiologico come la fame (uccidere per sfamarsi) o un bisogno emotivo come il gioco (aggressività sportiva o agonistica). L’aggressione biologicamente non-adattiva non è una difesa contro minacce alla propria sopravvivenza; non è filogeneticamente programmata, non sembra essere spontanea e non si accresce autonomamente. È una caratteristica esclusiva dell’uomo.
Essa è dannosa per tutto il tessuto sociale. È dannosa non solo per la persona attaccata ma anche per l’aggressore. È il desiderio patologico della distruzione della vita, è l’attrazione per tutto ciò che è in disfacimento. La parte maladattiva dell’aggressione umana non sembra essere innata e quindi, in teoria, può essere estirpata, ma non sembra essere nemmeno uno schema interpretativo-comportamentale appreso che sparisce quando vengono acquisiti nuovi schemi, è un potenziale umano, nel significato che potrebbe essere ma ancora non è, ossia, essa è virtuale. Diversi esperimenti hanno messo in relazione il comportamento aggressivo con la differenza di genere. Si è dimostrato che gli ormoni maschili tendono a generare comportamenti aggressivi.
Per spiegare il motivo si riconduce alle differenze fondamentali tra maschio e femmina nella rispettiva funzione sessuale durante l’atto sessuale. Anatomicamente e fisiologicamente è necessario che il maschio sia capace di penetrare, di non lasciarsi scoraggiare da eventuali paure, esitazioni o resistenze.
Poiché la capacità di funzionare sessualmente è una necessità fondamentale per la sopravvivenza della specie, ci si potrebbe aspettare che la natura avesse equipaggiato il maschio con qualche potenziale aggressivo. Sono stati condotti molti esperimenti, per evidenziare la relazione esistente fra l’aggressione e la castrazione chimica del maschio o gli effetti della somministrazione di ormoni maschili o femminili in un maschio. Da questi esperimenti si desume che il comportamento aggressivo e quello sessuale non derivino da una eccitazione comune che poi viene canalizzata da fattori ambientali. Ciò contraddice con l’assunto secondo cui gli impulsi aggressivi contribuiscono agli impulsi sessuali. Si può dire che il maschio ha la necessità di farsi avanti, di superare gli ostacoli, non si tratta di comportamento ostile e di attacco, ma di aggressione auto-affermatrice. Generalmente, nella letteratura scientifica non è stata operata in modo chiaro, alcuna distinzione tra aggressione maschile e comportamento d’attacco che ha lo scopo di danneggiare un’altra persona. D’altronde sarebbe un assurdo biologico: che senso avrebbe un atteggiamento ostile e nocivo verso la femmina che ha la responsabilità di generare la prole? Demolirebbe il vincolo elementare della relazione femmina- maschio. In determinate culture, specialmente quelle della dominanza patriarcale o dello sfruttamento femminile, si sviluppa un profondo antagonismo tra i sessi e non si potrebbe spiegare perché questo antagonismo dovrebbe essere desiderabile da un punto di vista biologico. D’altra parte non esiste alcuna prova che ci permetterebbe di concludere che le femmine siano meno distruttive o crudeli dei maschi.
Infine, è stato dimostrato clinicamente che una persona (femmina o maschio) con una aggressione liberamente auto-affermatrice tende a essere meno ostile in senso difensivo della persona la cui auto-affermazione è in qualche modo difettosa. Questo vale sia per l’aggressione adattiva sia per quella non adattiva come la pulsione ad avere un controllo illimitato sull’altro. Chi cerca di soddisfare questo bisogno soffre di un impotenza interiore, dell’incapacità di commuovere l’altro, di avere una risposta da lui, di amare e di farsi amare. A questa incapacità cerca di compensare attraverso il pieno controllo sull’altro.
Poiché l’aggressione auto-affermatrice accresce la capacità di raggiungere i propri obiettivi, diminuisce grandemente l’esigenza del controllo illimitato sugli altri. La persona timida o inibita, come quella afflitta da tendenze ossessive hanno difficoltà a manifestare questo tipo di aggressione. È probabile che il fattore più importante dell’indebolimento dell’aggressione auto-affermatrice è l’atmosfera autoritaria esistente nella famiglia e nella società, dove auto-affermazione equivale a disobbedienza, attacco, peccato. Per tutti i tipi di autorità assurda e sfruttatrice, il fatto che qualcuno (soprattutto se appartiene ad una categoria discriminata) persegua obiettivi propri, reali, è un peccato mortale perché costituisce una minaccia al potere costituito che deve essere annullata con la reclusione, con la tortura o addirittura con la morte del trasgressore. Così, l’individuo è indottrinato in modo da credere che i propri obiettivi coincidono con quelli dell’autorità e l’obbedienza offra opportunità ottimali per autorealizzarsi.
Chiaramente, l’aggressione può essere anche strumentale, il suo obiettivo non è la distruzione. La distruzione è solo un mezzo per ottenere qualcosa dall’altro. Rappresenta un bisogno fondamentale mai soddisfatto, un segno evidente di una disfunzione psichica. Un continuo fuggire da uno stato mentale disturbante, il tentativo di colmare un senso di vuoto interiore, una pulsione che spinge la persona a perseguire sempre e senza sosta i suoi obiettivi; ma non basta mai, deve avere sempre di più: più potere, più ricchezza, più fama, più ammirazione, più sesso, più alcol, più droga. Naturalmente se una persona ha abbastanza risorse per ottenere ciò che desidera non è necessario aggredire. Ma se non si hanno risorse aggredirà per soddisfare i suoi bisogni. Chi soffre di questo disturbo ha una mente autarchica ed egocentrica, tutto è riferito a lui, in funzione alle sue necessità e desideri. L’egocentrismo implica la negazione dell’altro. L’altro è solo uno strumento per la soddisfazione dei propri bisogni personali.
Nelle dittature o nei regimi dove i poteri sono fortemente centralizzati, i leaders di queste nazioni autoritarie sono consapevoli che a lungo andare la situazione socio-economica del paese sarà rovinata e per uscire dalla situazione di crisi, si propongono di occupare dei territori che garantiscano l’approvvigionamento di materie prime di cui hanno bisogno oppure di dominare una nazione concorrente aggredendola, o comunque individuare un nemico da colpire, anche all’interno del proprio popolo o parte di esso. L’aggressione sembra essere giustificata dalla necessità di sopravvivenza del popolo e allontanamento della minaccia alla nazione L’obiettivo finale è comunque aumentare il potere o l’ambizione personale dei leaders.
Tra le possibili conseguenze, ci possono essere due conseguenze disfunzionali per chi nella vita ha vissuto delle violenze. Due conseguenze che risultano essere dannose, provocando un continuo fallimento relazionale ed affettivo, un circolo vizioso da cui non se ne viene fuori, a livello individuale, di gruppo e di organizzazioni (includendo stati, società, organizzazioni mondiali, religiose e confessionali). Una prima conseguenza è identificarsi con la vittima e quindi della veridicità della convinzione di essere, in qualche modo, colpevole e l’abuso rappresenta una conferma della propria indegnità. Una seconda conseguenza disfunzionale è identificarsi con l’aggressore e quindi cercherà di contrastare la credenza della propria inadeguatezza, giudicando, aggredendo e punendo gli altri con l’apparente scopo di provocare in loro vergogna, indegnità, inadeguatezza.
Come già accaduto in passato, il giudizio morale negativo è il veicolo principale che ci potrebbe portare al disastro, ad una cultura di esaltazione della morte e la conseguente amplificazione dell’aggressività maladattiva. Esso è uno strumento di morte, di annichilimento dell’essere umano. La distruttività si veicola attraverso la negazione dell’altro, attraverso la sua disumanizzazione, non è più un essere umano, è qualcos’altro: un’ostacolo, un fastidio, un parassita da annientare, una minaccia alla propria identità. Il giudizio è veloce, automatico, inconsapevole. Si salta alle conclusioni ma non si è consapevoli delle premesse. Nelle relazioni sentimentali la relazione con l’altro è vissuta come esclusiva e assoluta, il partner è uno strumento per appagare i propri bisogni egoici; l’altro è considerato un prezioso bene vitale, una «conditio sine qua non», una condizione necessaria a definire positivamente la propria identità, ovvero, il proprio sé. La negazione dell’altro conduce alla sua distruzione, o lo induce a diventare come il persecutore nell’illusoria credenza di proteggersi dall’aggressione.
Alla nascita il neonato inizia ad abbandonare la sicurezza del grembo materno, si impegna a trovare una situazione di sicurezza e protezione assolute. Ma la realizzazione di questo obiettivo è ostacolata dalla sua condizione neurofisiologica e rimane un forte bisogno di annullare la separazione. La sua stessa condizione pone l’essere umano d’avanti ad una alternativa, persistere all’impulso di regredire verso la dipendenza dai genitori, oppure, progredire e trovare nuove basi di sicurezza attraverso l’esplorazione, emancipandosi dal dominio del passato, sperimentando un senso che può essere definito: di sorellanza o fraternità umana.
Secondo il modello dell’attaccamento, ampiamente suffragato da dati di ricerca, il legame di attaccamento bambino-madre costituisce l’esito di un sistema motivazionale primario, a base biologica e finalità evolutiva di adattamento distinta dalla soddisfazione dei bisogni fisiologici. L’attaccamento è l’esito di un sistema di controllo del comportamento che scaturisce dalla propensione innata a cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie, ritenuto in grado di offrire cura, quando ci si percepisce vulnerabili ai pericoli. Il sistema è disattivato dal raggiungimento dell’obiettivo della vicinanza protettiva segnalato da esperienze emotive di conforto, gioia e sicurezza. La disattivazione del sistema permette l’attivazione di altri registri motivazionali come quello dell’esplorazione, del gioco (cooperativo), della sessualità di coppia. Le relazioni di attaccamento assumono un’importanza fondamentale, non solo per la sopravvivenza fisica e psichica del bambino, ma anche perché sono interiorizzate e costituiscono le strutture fondanti la propria identità. La rappresentazione che il bambino costruisce su di sé riflette anche l’immagine che i genitori hanno di lui. Lo sviluppo dello schema di sé, ossia, dell’insieme organizzato di strutture di conoscenza, comportamenti verbali, emozioni, significati e attributi di tipo fisico e sociale, è strettamente collegato processo di categorizzazione. Nel corso delle interazioni sociali, la categorizzazione determina anche il modo in cui una persona valuta se stessa in relazione agli altri e alle proprie competenze. L’acquisizione delle categorie del proprio gruppo sociale, la valutazione del proprio comportamento da parte delle persone significative del proprio ambiente e la loro imitazione, contribuiscono notevolmente alla formazione di un primo abbozzo del concetto di sé. L’acquisizione di questo schema archetipico influenzerà il modo in cui l’individuo indirizzerà la selezione e l’elaborazione delle informazioni in arrivo ed organizzerà il proprio comportamento.
Quando si vivono esperienze nocive nell’infanzia e nell’adolescenza si costruiranno schemi maladattivi. In questo scritto si insiste sul carattere virtuale (nel significato che potrebbe essere ma ancora non è), dell’aggressione umana maladattiva che non sembra essere semplicemente uno schema interpretativo-comportamentale appreso che sparisce quando vengono acquisiti nuovi schemi. In altre parole, non è solo qualcosa se si trova “dentro” la testa dell’individuo è qualcosa che sta anche “fuori” di essa, discende dall’ordine culturale. La cultura svolge diverse funzioni: funge da mediazione con l’ambiente attraverso l’usi di artefatti, di produzione di senso e ordine al mondo, ma anche offre una cornice morale all’agire umano. Il senso delle cose che viene sperimentato all’interno di una definita comunità è fissato e trasmesso mediante il suo linguaggio. Noi pensiamo, comunichiamo e agiamo secondo modalità definite dalle strutture linguistiche di cui disponiamo. Il linguaggio non si limita a trasmettere strutture interpretative consolidate e socialmente condivise, determina i confini stessi della realtà. Le società sono multiculturali e si pone la questione di come potrà avvenire un confronto tra culture che non riproduca le forme di sopraffazione e distruzione che prevalsero in passato. Ogni cultura svolge la funzione di motivare le persone, indicando quali obiettivi devono mirare, proponendo criteri e modelli che le persone possono usare per comprendere le situazioni che affrontano e per immaginare il proprio futuro. Ciascuna di essa ci dice cosa sia la felicità, di cosa essere fieri, cosa è bello. La cultura affida i valori a modelli attraenti che catturano l’immaginazione delle persone che ne fanno parte suscitando il desiderio di seguire quelli che incorporano quanto di nobile, giusto e amabile esista. Nel corso delle interazioni sociali, la categorizzazione determina anche il modo in cui una persona valuta se stessa in relazione agli altri e alle proprie competenze. L’acquisizione delle categorie del proprio gruppo sociale, la valutazione del proprio comportamento da parte delle persone significative del proprio ambiente e la loro imitazione, contribuiscono notevolmente alla formazione di un primo abbozzo del concetto di sé. L’acquisizione di questo schema archetipico influenzerà il modo in cui l’individuo indirizzerà la selezione e l’elaborazione delle informazioni in arrivo ed organizzerà il proprio comportamento. La cultura viene intesa come una rete di analogie e metafore che ci permette di dare senso alla realtà. Le reti di senso che le culture costruiscono delimitano la realtà nel momento stesso in cui le danno senso. Le società sono multiculturali e si pone la questione di come potrà avvenire un confronto tra culture che non riproduca le forme di sopraffazione e distruzione che prevalsero in passato.
La scissione esistenziale sarebbe insopportabile se l’individuo non potesse creare un senso di unità con sé stesso e con l’ambiente naturale e umano. L’uomo ha avuto un sviluppo straordinario e si può ipotizzare che l’umanità possa costruire una società in cui nessuno è minacciato e sopraffatto, nessun bambino, nessun genitore, nessun cittadino, nessuna autorità superiore, nessuna categoria sociale, nessuna nazione; è un obiettivo difficile da raggiungere, poiché non si possono ignorare le motivazioni culturali, economiche, politiche e psicologiche che lo ostacolano. D’altra parte l’aggressione maladattiva non è innata e può essere fortemente ridotta favorendo come obiettivo lo sviluppo delle esigenze e delle capacità creative umane. Alla cultura di morte e repressione della libertà si contrappone una cultura di vita e libertà: è l’esaltazione della dignità della persona chiunque essa sia o voglia definirsi. È il desiderio di accudire, di far crescere: un fiore, un albero, un idea, un individuo, un gruppo, un’organizzazione, uno stato, costruire piuttosto che accumulare; vivere il cambiamento verso il nuovo piuttosto che vivere riaffermando il passato remoto. Una diversa sensibilità culturale indica la strada verso l’unità. Non si può dire che sia una novità, essa ha radici antiche perché già in passato vi sono stati dei tentativi. Una sensibilità culturale che unisce nelle differenze, costruendo una rete di significati condivisi, principi, valori e visioni comuni, una nuova unità sovraordinata inclusiva, al di sopra delle differenze culturali individuali e sociali. Ogni persona ne fa parte, tutta l’umanità ne fa parte.
American Psychiatric Association, 2014 Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Quinta edizione, Milano, Raffaello Cortina Editore Abrams D., 1992 Processes of social identification, in Breakwell G.M. (a cura di), Social psychology of identity and the self-concept, London, Surrey University Press, pp. 57-100. Antaki C. 1994. Explaining and arguing. The social organization of accounts, London, Sage. Bara B., 1990 Scienza cognitiva, Torino, Bollati Borlingheri Beach L.R. 1990 Image Theory: Decision making in personal and organizational context, Chichester, Wiley. Beach L.R. 1993 Broadening the definition of decision making: the role of prochoice screening of options, in «Psychological Science» 4, 4 pp. 215-220. Beck A., 1985 Disorders and Phobias – A Cognitive Perspective (a cura di) Beck A. and Emery G. with Greenberg R.L. Basic Books, Harper & Row Ltd., New York, Bowlby J., 1973 attaccamento e perdita, vol. 2: la separazione dalla madre: angoscia e rabbia. Torino, Bollati Boringhieri 2000 Bruner J. 1993 Acts of meaning, Cambridge, Mass. Harvard University Press. Trad. It. La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 Clancey W.J. 1993 Situated action: A neuropsychological interpretation response to Vera and Simon, in «Cognitive Science», 17, pp. 87-116. Clancey W.J. 1997 The conceptual nature of knowledge, situations and activity, in Feltowich P.J. et al. (a cura di), Expertise in context, Cambridge, Mass., The AAAI Press / The MIT Press. Edwards D., 1991 Categories are for talking: On the cognitive and discursive bases of categorization, in «Theory & Psychology», 1, pp. 511-542. Fromm E., 1973 Anatomia della distruttività umana, Milano, Arnoldo Mondadori Editore Lazarus, R.S. 1991 Emotion and adaptation, New York, Oxford University Press. Gergen K. J., 1994 Realities and relationships. Soundings in social construction, Cambridge, Mass., Harvard University Press. Mantovani G., 1995 Comunicazione e identità, Bologna, Il Mulino. Rosch E.,1978 Principles of categorization, in Cognition and categorization (a cura di) Rosch E. e Loyd B Hillsdale, NJ: Erlbaum. Ross L. e Nisbett R.E., 1991 The person and the situation, New York, McGowan-Hill. Stangor C., Sullivan L. A. e Ford T. E., 1991 Affective and cognitive determinants of prejudice, in «Social Cognition», 9, pp 359-380. Zalesny M.D. e Ford J.K., 1990 Extending the social information processing perspectives: new links of attitudes, behaviors and perceptions, in «Organizational Behavior and human decision processes», 47, pp. 205-246.